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lunedì 2 aprile 2012

FINIRE PRIMA DI COMINCIARE... O APPENA DOPO


[…]
"L’anno del mio decimo compleanno si era ammalato papà, ed era stato allora che avevo cominciato a smettere. Mi era sempre piaciuto il timbro del pianoforte, così mi iscrissi a lezione per sei settimane alla fine delle quali ci fu un saggio. Mi vestii elegante e suonai un minuetto, e le mie due mani facevano cose diverse contemporaneamente e alla fine si bevve il succo di frutta e mi abbracciarono mentre la melodia continuava a ronzarmi in testa. Accompagnai l’insegnante alla macchina, lei mi sorrise orgogliosa. Il cielo le si strinse addosso. Abbassai la voce: senta, le dissi concitata. Lei non deve più, mai più rimettere piede in questa casa. Interdetta aggrottò le sopracciglia. Mona?, chiese. Che diamine…
Grazie, risposi. Ma siamo al capolinea.
Dissi a mamma che era un gran peccato, accidenti, che l’unica insegnante di pianoforte se ne andasse dalla nostra cittadina povera di opportunità per diventare una rock star nella metropoli. Lei spalancò gli occhi e prese il telefono. Il cuore cominciò a battermi forte, ma con enorme sollievo a casa dell’insegnante scattò la segreteria telefonica e il messaggio di mamma fu vago, qualcosa tipo: Buona fortuna, le facciamo tanti auguri. Tre settimane dopo si incontrarono per caso al mercato. Non ho idea di che cosa si siano dette.
Ho preso dieci lezioni di danza, e il pomeriggio del mio primo saltello ho donato le scarpe in beneficienza. Ho avuto un solo ragazzo: in meno di due mesi, a letto si era trasformato in una statua. Sulla pista d’atletica correvo come una meteora, e mi sono spedita fuori dall’orbita.
Ho smesso con i dolci per il gusto di vedere se ci riuscivo – naturalmente sì; una sera ho smesso di respirare finché i polmoni non hanno preso il sopravvento; ho smesso di toccarmi la pelle, dormendo con le mani sotto il cuscino. Quando non c’era nessuno a casa, legavo il pianoforte con delle corde, così che poi mi ci voleva mezz’ora di lavoro con le forbici per rimettermi su quel minuetto. Dopo un po’ ho nascosto tutte le forbici.
Non ho smesso invece di tamburellare sul legno, cosa che facevo sempre. Era il mio modo di sigillare nelle radici e nella corteccia ogni cosa interrotta; ascolta, dico al legno… guarda bene cosa sto facendo. Prendi nota. Notalo.
Niente piano. Niente dolci. Niente atletica. Niente. Sono innamorata dello smettere.
A suo modo è un’arte, se ci pensate. Smettere bene richiede un innato senso della bellezza; bisogna saper sentire il momento della svolta, proprio quando il desiderio fa la sua comparsa, quello è il momento di darci un taglio, giù deciso, l’istante in cui lo smettere è maturo come una pesca che si fa dolce sull’albero: crack, si spacca il picciolo, la pesca cade per terra, nera e argento di mosche. Ho avuto un solo ragazzo. Di solito era distratto ma una bella sera d’estate eravamo seduti di fronte a casa sua e le sue labbra si mossero sulla mia pelle come un quartetto d’archi e sentii che quella pesca era pronta a cadere dall’albero.
Ho smesso di andare al cinema.
Ho smesso di lavorare alla tavola calda visto che il cuoco non la smetteva più di dire che ero stata un’atleta eccezionale.
Ho smesso di mangiare uova sode in insalata.
Ho smesso di consultare gli atlanti.
Avevo smesso da un pezzo di pensare che me ne sarei andata di casa quando, il giorno del mio diciannovesimo compleanno, mamma mi buttò fuori lei."  

[Da A. Bender Un segno invisibile e mio]

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