Il Ragazzo intuiva che quella fame era il nocciolo della follia del vecchio, e segretamente aveva paura che si potesse trasmettere, che gli si potesse nascondere nel sangue e, un giorno, colpirlo. Allora anche lui sarebbe stato dilaniato dalla fame, come il prozio, il suo stomaco non avrebbe più avuto fondo e nulla avrebbe potuto guarirlo o saziarlo, se non il pane della vita.
Quand'era possibile, tentava di sfuggire a questi pensieri, di guardar le cose normalmente, di non vedere più di quanto gli stava davanti e di non oltrepassare con gli occhi, la superficie. Aveva l'aria di temere che se avesse permesso al suo sguardo di soffermarsi un attimo più di quanto occorreva per riconoscere una cosa - una vanga, una zappa, i quarti posteriori del mulo attaccato all'aratro, il solco rosso ai suoi piedi - quella cosa si sarebbe levata improvvisamente dinanzi a lui, estranea e spaventosa, esigendo che la nominasse, e la nominasse senza errori, e lui sarebbe stato giudicato dal nome che le avrebbe dato. Tarwater faceva il possibile per evitare il rischio di questa intimità con il creato.
[F. O' Connor il cielo è dei violenti]
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