"Sull'atroce
morte di Pasolini s'è scritto tutto; ma sulle ragioni per cui egli non ha
potuto non andarle incontro, penso quasi nulla. Cosa lo spingeva, la sera o
la notte, a volere e a cercare quegli incontri? La risposta è complessa, ma può
agglomerarsi, credo, in un solo nodo e in un solo nome: la coscienza e
l'angoscia dell'essere diviso, dell'essere soltanto una parte dl un'unità che,
dal momento del concepimento, non è più esistita; insomma, la coscienza e
l'angoscia dell'essere nati e della solitudine che fatalmente ne deriva. La
solitudine, questa cagna orrenda e famelica che ci portiamo addosso da quando
diventiamo cellula individua e vivente e che pare privilegiare coloro che,
con un aggettivo turpe e razzista, si ha l'abitudine di chiamare
"diversi". Allora, quando Il lavoro è finito (e, magari, sembra
averci ammazzati per non lasciarci più spazio altro che per il sonno e magari
neppure per quello); quando ci si alza dai tavoli delle cene perché gli amici
non bastano più; quando non basta più nemmeno la figura della madre (con cui,
magari, s'è ingaggiata, scientemente o incoscientemente, una silenziosa lotta o
intrico d'odio e d'amore) e si resta lì, soli, prigionieri senza scampo,
dentro la notte che è negra come il grembo da cui veniamo e come il nulla verso
cui andiamo, comincia a crescere dentro di noi un bisogno infinito e disperante
di trovare un appoggio, un riscontro; di trovare un "qualcuno"; quel
"qualcuno" che ci illuda, fosse pure per un solo momento, dl poter
distruggere e annientare quella solitudine; di poter ricomporre quell'unità
lacerata e perduta. Gli occhi, quegli occhi; la bocca, quella bocca; i capelli,
quei capelli; il corpo, quel corpo; e l'inesprimibile ardore che ogni
essere giovane sprigiona da sé, come se in esso la coscienza di quella
divisione non fosse ancora avvenuta, come se lui, proprio lui, fosse l'altra
parte che da sempre ci è mancata e ci manca. Mettere di fronte a queste
disperate possibilità e a queste disperate speranze il pericolo, fosse pure
quello della morte, non ha senso. Io penso che non s'abbia neppure il tempo per
fare dì questi miseri calcoli; tanto violento è il bisogno di riempire quel
vuoto e di saldare o almeno fasciare quella ferita. Del resto, chi
potrebbe segnalarci che dentro quegli occhi, dentro quella bocca, quei capelli
e quel corpo, si nasconde un assassino? Nella mutezza del cosmo queste
segnalazioni non arrivano; e anche se arrivassero, torno a ripetere che il
bisogno di vincere quell'angoscia risulterebbe ancora più forte e ci vieterebbe
d'intendere. Si parte; e non si sa dove s'arriva. Per sere e sere, una volta
avvenuto l'incontro, l'illusione riprecipita in se stessa. Ma nella liberazione
fisica s'è ottenuta una sorta di momentanea requie; o pausa; o riposo. La
sera seguente tutto riprende; giusto come riprende il buio della notte. E così
gli anni passano. La distanza dal punto in cui l'unità perduta è diventata
coscienza si fa sempre maggiore, mentre sempre minore diventa quella che ci
separa dal reingresso finale nella "nientità" della morte; e dalle
sue implacabili interrogazioni. Le ombre, allora, s'allungano; più difficile si
rende la possibilità che quell'incontro infinite volte cercato, finalmente si
verifichi; più difficile, ma non meno febbricitante e divorante. La
vicinanza della morte chiama ancora più vita; e questo più o troppo di vita che
cerchiamo fuori di noi, in quegli incontri, in quegli occhi, in quelle labbra,
non fa altro che avvicinare ulteriormente la fine. Così chi ha voluto veramente
e totalmente la vita può trovarsi più presto degli altri dentro le mani stesse
della morte che ne farà strazio e ludibrio. A meno che il dolore non insegni la
"via crucis" della pazienza. Ma è una cosa che il nostro tempo
concede? E a prezzo di quali sacrifici, di quali attese o di quali terribili e
sanguinanti trasformazioni o assunzione di quegli occhi e di quelle labbra?"
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