domenica 24 giugno 2012

pescitudine

Ecco. Questo è poi un art attak che ho fatto. é pur vero che per realizzarlo ho inalato qualunque tipo di sostanza tossica esistente, soprattutto colla e smalto ma dovevo portare a casa il risultato e alla fine ce l'ho fatta. Sono dei pesci anni 70 con il corpo di paiettes... pronti per andare a ballare.



Una delle cose che mi dispiace di più dei miei art attak è che infondo sono assolutamente inutili. Non servono a niente... bisogna che ci trovo un'occupazione a questi pesci altrimenti poi sono tristi... e con quei denti è decisamente meglio non farli arrabbiare...

sabato 23 giugno 2012

Il mio (ESSENZIALE) album di mostri

Oggi mi sono comprata questo libro di cui avevo ASSOLUTAMENTE bisogno... è un libro di mostri da colorare e non è assolutamente rilevante il fatto che io abbia anni n. 28 e non anni n. 5... ne avevo bisogno e poi c'è modo e modo di colorare i mostri...
Quello che bisogna fare oltre a colorare i mostri è fare dei disegni per fargli dei dispetti... come per esempio disegnare delle cacche di piccioni che gli cadono in testa oppure dei cuori sul pigiama...
In ogni caso... la decisione veramente importante è che: chiunque verrà a casa mia potrà colorare un mostro a sua scelta...

il mio (ESSENZIALE) album di mostri 2


venerdì 22 giugno 2012

Solitudine


"Sull'atroce morte di Pasolini s'è scritto tutto; ma sulle ragioni per cui egli non ha potuto non andarle incontro, penso quasi nulla. Cosa lo spingeva, la sera o la notte, a volere e a cercare quegli incontri? La risposta è complessa, ma può agglomerarsi, credo, in un solo nodo e in un solo nome: la coscienza e l'angoscia dell'essere diviso, dell'essere soltanto una parte dl un'unità che, dal momento del concepimento, non è più esistita; insomma, la coscienza e l'angoscia dell'essere nati e della solitudine che fatalmente ne deriva. La solitudine, questa cagna orrenda e famelica che ci portiamo addosso da quando diventiamo cellula individua e vivente e che pare privilegiare coloro che, con un aggettivo turpe e razzista, si ha l'abitudine di chiamare "diversi". Allora, quando Il lavoro è finito (e, magari, sembra averci ammazzati per non lasciarci più spazio altro che per il sonno e magari neppure per quello); quando ci si alza dai tavoli delle cene perché gli amici non bastano più; quando non basta più nemmeno la figura della madre (con cui, magari, s'è ingaggiata, scientemente o incoscientemente, una silenziosa lotta o intrico d'odio e d'amore) e si resta lì, soli, prigionieri senza scampo, dentro la notte che è negra come il grembo da cui veniamo e come il nulla verso cui andiamo, comincia a crescere dentro di noi un bisogno infinito e disperante di trovare un appoggio, un riscontro; di trovare un "qualcuno"; quel "qualcuno" che ci illuda, fosse pure per un solo momento, dl poter distruggere e annientare quella solitudine; di poter ricomporre quell'unità lacerata e perduta. Gli occhi, quegli occhi; la bocca, quella bocca; i capelli, quei capelli; il corpo, quel corpo; e l'inesprimibile ardore che ogni essere giovane sprigiona da sé, come se in esso la coscienza di quella divisione non fosse ancora avvenuta, come se lui, proprio lui, fosse l'altra parte che da sempre ci è mancata e ci manca. Mettere di fronte a queste disperate possibilità e a queste disperate speranze il pericolo, fosse pure quello della morte, non ha senso. Io penso che non s'abbia neppure il tempo per fare dì questi miseri calcoli; tanto violento è il bisogno di riempire quel vuoto e di saldare o almeno fasciare quella ferita. Del resto, chi potrebbe segnalarci che dentro quegli occhi, dentro quella bocca, quei capelli e quel corpo, si nasconde un assassino? Nella mutezza del cosmo queste segnalazioni non arrivano; e anche se arrivassero, torno a ripetere che il bisogno di vincere quell'angoscia risulterebbe ancora più forte e ci vieterebbe d'intendere. Si parte; e non si sa dove s'arriva. Per sere e sere, una volta avvenuto l'incontro, l'illusione riprecipita in se stessa. Ma nella liberazione fisica s'è ottenuta una sorta di momentanea requie; o pausa; o riposo. La sera seguente tutto riprende; giusto come riprende il buio della notte. E così gli anni passano. La distanza dal punto in cui l'unità perduta è diventata coscienza si fa sempre maggiore, mentre sempre minore diventa quella che ci separa dal reingresso finale nella "nientità" della morte; e dalle sue implacabili interrogazioni. Le ombre, allora, s'allungano; più difficile si rende la possibilità che quell'incontro infinite volte cercato, finalmente si verifichi; più difficile, ma non meno febbricitante e divorante. La vicinanza della morte chiama ancora più vita; e questo più o troppo di vita che cerchiamo fuori di noi, in quegli incontri, in quegli occhi, in quelle labbra, non fa altro che avvicinare ulteriormente la fine. Così chi ha voluto veramente e totalmente la vita può trovarsi più presto degli altri dentro le mani stesse della morte che ne farà strazio e ludibrio. A meno che il dolore non insegni la "via crucis" della pazienza. Ma è una cosa che il nostro tempo concede? E a prezzo di quali sacrifici, di quali attese o di quali terribili e sanguinanti trasformazioni o assunzione di quegli occhi e di quelle labbra?"

[Espresso, 9 novembre 1975 - Testori]

mercoledì 20 giugno 2012

un tema di maturità



Questa mattina mi è venuta la matta e ho fatto uno dei temi che c'erano per le tracce della maturità, quello sul labirinto perché mi piaceva tantissimo. 

Una delle cose che a mio padre è sempre piaciuto fare e che, anche oggi, gli porta via una gran quantità di tempo è “La settimana enigmistica”. Sinceramente non ho mai capito, né gli ho mai chiesto, che cosa lo appassioni tanto di quel giornaletto ma credo che il segreto stia nel senso di ordine e di compiutezza che porta con sé un quiz ben risolto.
Unisci i puntini, e verrà fuori un bel disegno, rispondi a tutte le domande e il cruciverba è completato e non c’è più nessuna casella bianca, guarda bene le figure, aggiungi le lettere, fai due ragionamenti eee oplà ecco che anche il rebus è risolto e diventa una frase semplice e chiara. Ciò che era indecifrabile improvvisamente acquista un suo significato e la cosa migliore è che, in un certo senso, se sei tu ad avere risolto il quiz, sei tu che sei stato capace di dargli il suo significato, il senso che aveva perduto.
Ogni tanto, tra le pagine un po’ ingiallite di quel settimanale c’è anche il quiz del labirinto, è uno di quelli facili: prendi la penna o la matita, se sei insicuro, e inizi a tracciare una linea e lentamente la tua linea arriva all’uscita. Il tratto di penna o la timida linea di grafite ricongiungono, non so, il cane alla sua ciotola, il bambino che si era perso alla sua casa. La strada che la tua mano percorre può avere un segno più o meno sicuro ma, non c’è dubbio, prima o poi arriverà a destinazione e potrai passare, volendo, al prossimo quiz.
Ecco, sulla carta è facile, perché il labirinto di solito è piccolo e poi se ne ha una visione d’insieme, devi trovare una strada, devi trovare una soluzione ed è una cosa semplice, è nella vita, quella vera, che la faccenda è complicata.
La vita che, a volte, assomiglia così tanto alla nitida città degli immortali descritta da Borges, qualcosa che sembra fatto apposta per perdercisi dentro, per non raccapezzarcisi. Qualcosa che sembra esplorabile solo in maniera imperfetta. Di tutte le cose che ci accadono, di tutti gli incontri che facciamo è così terribile non riuscire ad afferrare immediatamente il senso, che ci sembra come un’ alta finestra irraggiungibile, la vistosa porta che s’apriva su una cella o su un pozzo, le incredibili scale rovesciate, coi gradini e la balaustra all’ingiù.
Gli eventi che popolano la nostra esistenza assomigliano al quadro di Esher “relatività” dove, le strade, le scale, sembrano non portare da nessuna parte o le porte si aprono solo su stanze buie. Nessuno di quelli che, lì nel quadro, come noi, va su e giù sembra aver trovato la strada, forse quei due che se ne vanno nel giardino abbracciati ma non è sicuro.


Il problema è che così, non avendo un significato, non trovando una strada, nessuno ha un volto, una faccia, tutti si assomigliano e sono tragicamente da soli, occupati nei loro affari o piegati, come uno degli omini, sotto il peso di un sacco troppo pesante.

È la stessa cosa che accade al protagonista delle Città invisibili di Calvino quando vorrebbe andare nel centro di Pentesilea. Si chiede dove si trovi: la città dove si vive, non il luogo dove si lavora, il luogo dove si dorme ma il luogo dove si vive, dove uno, cioè, è veramente se stesso. Non il posto dove si va, spesso, quasi obbligati da un dovere o da una necessità e nemmeno il luogo dove si dorme, dove non si è che parte di una massa indistinta accumunata da un bisogno del tutto naturale. Il punto è se esiste un posto in cui io posso essere davvero io, se esiste una strada per andarci, se qualcuno conosce questa strada oppure se si è condannati a vagare di periferia in periferia, da indistinto a indistinto, vittime delle indicazioni di chi, con “un gesto intorno che non sai se voglia dire: “Qui”, oppure: “Più in là”, o: “Tutt’in giro”, o ancora: “Dalla parte opposta”, non sa nemmeno lui dove sta andando.
Sembra che il centro della città, il luogo in cui dire io, in cui sentirsi a casa, in cui sentire che il proprio bisogno è compiuto e ha una risposta esista, sì, ma in fondo sia irraggiungibile quindi, meglio arrendersi, meglio rinunciare a capire e abbandonarsi un limbo che appare ipotesi tanto probabile quanto angosciosa.
Anche i personaggi dell’Orlando Furioso di Ariosto vivono lo stesso dramma, per un intero poema vanno alla ricerca dell’oggetto del loro desiderio, di ciò che, una volta posseduto, li faccia sentire compiuti, risolti.
È impossibile non essere solidali e sentirsi vicini al povero Orlando che si affanna nel castello alla ricerca di Angelica o a tutti gli altri che come lui s’inquietano e si arrabbiano perché non riescono a possedere ciò che desiderano:

Di su di giù va il conte Orlando e riede, / né per questo può far gli occhi mai lieti / che riveggiano Angelica, o quel ladro / che n’ha portato il bel viso leggiadro. // E mentre or quinci or quindi invano il passo / movea, pien di travaglio e di pensieri, / Ferraù, Brandimarte e il re Gradasso, / re Sacripante ed altri cavallieri / vi ritrovò ch’andavano alto e basso, / né men facean di lui vani sentieri; / e si ramaricavan del malvagio / invisibil signor di quel palagio. // Tutti cercando il van, tutti gli dànno / colpa di furto alcun che lor fatt’abbia: / del destrier che gli ha tolto, altri è in affanno; / ch’abbia perduta altri la donna, arrabbia; / altri d’altro l’accusa: e così stanno […].

In questo labirinto, in cui raggiungere ciò che fa gli occhi lieti sembra impossibile, l’affanno inquieto della ricerca, si accompagna sempre alla ricerca di un colpevole per il fatto che non si riesce ad afferrare ciò che si desidera.
Quante volte, ci si illude che trovando il colpevole il mistero di quello che accade sia risolto, l’inquietudine di fronte a qualcosa che non controlliamo possa essere ammansita. Così, se a causa di un terremoto, una casa cade e delle persone muoiono, ci sembra che sapere tutte le ragioni per cui avviene un terremoto, sapere com’era costruita la casa e quindi perché è crollata, trovare un amministratore negligente che non ha fatto il suo dovere, risponderà in maniera esaustiva all’unica domanda a cui realmente vogliamo rispondere: perché è successo?.
Perché ci capita di desiderare cose che la vita sembra rifiutarci, qual è la strada per noi? Si può essere compiuti, davvero felici in un marasma di cose.
Se la risposta non c’è, se non è afferrabile, se non è incontrabile, se non c’è la strada per uscire dal labirinto allora, purtroppo la vita è esattamente come il quadro il Pollok. 


Non a caso, questo dipinto, prende il titolo da un mito in cui anche l’ordine naturale delle cose è stravolto e con un inganno una donna può orribilmente accoppiarsi con un toro. Uomini, animali, cose, persone, senza una strada tutto è uguale, tutto è indistinto, tutto è confuso e la riuscita sta solo nelle mani dei violenti o di chi ha il potere e la forza di sgomitare all’interno della confusione o di imporre con la forza un suo ordine temporaneo alle cose.
L’unica possibilità, è che qualcuno, come la bambina del quadro di Picasso ci illumini la strada, che qualcuno, per cui il significato delle cose non è un ignoto ci accompagni e ci sostenga nella nostra strada. 

L’unica soluzione è che a dispetto dell’apparenza della nostra misura, che è deforme come il Minotauro che nel quadro vuole spegnere la candela della bambina, il significato delle cose esista e che possa essere incontrato e vissuto. 

lunedì 18 giugno 2012

la vita. Sempre la vita.

Se siamo fortunati, non importa scrittori o lettori, finiremo l'ultimo paio di righe di un racconto e ce ne resteremo seduti un momento o due in silenzio. Idealmente, ci metteremo a riflettere su quello che abbiamo appena scritto o letto; magari il nostro cuore e la nostra mente avranno fatto un piccolo passo in avanti rispetto a dove erano prima. La temperatura del nostro corpo sarà salita, o scesa, di un grado. Poi, dopo aver ripreso a respirare regolarmente, ci ricomporremo, non importa scrittori o lettori, ci alzeremo e "creature di sangue caldo e nervi", come dice un personaggio di Cechov, passeremo alla nostra prossima occupazione: la vita. Sempre la vita. 

[R. Carver]

sabato 16 giugno 2012

Matrimoni

Oggi sono stata a un matrimonio... in verità a me non piace affatto andare ai matrimoni... in fondo sono un po' noiosi, però questo era bello. Innanzitutto era in un posto magnifico: 




Secondo c'erano questi da assaggiare ed erano tutti violetti e gommosini.



Terzo: c'era una vera torta nuziale di quelle multipiano e... attenzione non era fatta di schifido pan di spagna rancido e panna come tutte le torte nuziali ma di sfogliatine e glassa e frutti di bosco e cioccolata bianca!!!

Quarto: a un certo punto ero seduta al tavolo ed è arrivato anche Magritte...

venerdì 15 giugno 2012

fame...

Il Ragazzo intuiva che quella fame era il nocciolo della follia del vecchio, e segretamente aveva paura che si potesse trasmettere, che gli si potesse nascondere nel sangue e, un giorno, colpirlo. Allora anche lui sarebbe stato dilaniato dalla fame, come il prozio, il suo stomaco non avrebbe più avuto fondo e nulla avrebbe potuto guarirlo o saziarlo, se non il pane della vita. 
Quand'era possibile, tentava di sfuggire a questi pensieri, di guardar le cose normalmente, di non vedere più di quanto gli stava davanti e di non oltrepassare con gli occhi, la superficie. Aveva l'aria di temere che se avesse permesso al suo sguardo di soffermarsi un attimo più di quanto occorreva per riconoscere una cosa - una vanga, una zappa, i quarti posteriori del mulo attaccato all'aratro, il solco rosso ai suoi piedi - quella cosa si sarebbe levata improvvisamente dinanzi a lui, estranea e spaventosa, esigendo che la nominasse, e la nominasse senza errori, e lui sarebbe stato giudicato dal nome che le avrebbe dato. Tarwater faceva il possibile per evitare il rischio di questa intimità con il creato.


[F. O' Connor il cielo è dei violenti]

mercoledì 13 giugno 2012

Un disco perfetto

Adesso non è che io sia una di quelle esperte di musica che dicono cose di una certa intelligenza sui dischi, però l'altro giorno ho scoperto l'album "Da solo" di Vinicio Capossela e, a mio modesto parere che peraltro condivido (cit.), è perfetto.

Le canzoni sono tristi, alcune, e altre contente.
é bello che si chiami "da solo" perché è la musica perfetta per quando uno è da solo, ma non da solo che non c'è nessuno, è quel "da solo" perché sei triste e nessuno capisce perché sei triste ma c'hai un nocciolo che ti pesa sul cuore grosso così e non riesci a piangere però quello, il nocciolo intendo, pesa da matti.
è anche quel "da solo" perché sei molto contento e ci sono cose per cui sei contento solo tu, perché sono solo per te per cui anche in quel caso sei da solo. 
E poi, sì, è anche il "da solo" di tutte quelle volte che succedono cose per cui una canzone come: "Non c'è disaccordo nel cielo" ha nel testo le seguenti parole per descriverle:

A volte non vedo nel cielo che
nuvole gonfie e mistero e
salendo nel vapore leggero altro
non vedo e non so



é un disco perfetto anche perchè è pieno di cose piccole ma buone, quelle cose che non tutti notano ma che stanno lì come il "cielo color mattino, color cestino, azzurro dell'asilo" o "le frenate degli aerei in cielo".

E poi quando in un disco per spiegare gli accompagnamenti scrivi: 

"Malaccompagnato da: chitarra fantasma, theremin, spartiti da banda, ... cristallarmonio, ... il gigante, il mago, il fischio del buonumore... e in somma l'Orchestra degli strumenti inconsistenti" 

Io sono già conquistata. Potrei non averlo ancora sentito ma, non importa, ne varrebbe comunque la pena. 

sabato 9 giugno 2012

Modì

Ecco che Modigliani le sue idee doveva prenderle da qualche parte.


Addio Anni 70

Oggi ho visto questa mostra a Palazzo Reale... Addio Anni '70... effettivamente direi anche io addio a un bel po' delle cose che c'erano, però conserverei il signor Danie Spoerri che ha pensato questa idea dei tavoli con le cose appiccicate sopra. La cosa bella è che sono proprio come le tavole delle cene vere su cui alla fine c'è un po' di tutto, anche cose che non c'entrano. Come i fogli di quando chiedi al papà se ti aiuta a fare i compiti o i giochi che hai rotto e gli chiedi se te li aggiusta. Poi su uno c'era anche una superpila e poi insomma le solite cose assurde che metti a tavola e per cui la mamma si arrabbia e dice: "Non si mettono quelle cose sul tavolo, sono sporche". 



Piazza dei mercanti

Oggi in piazza dei mercanti c'era questa cosa, spago con mollette e fogli appesi con poesie... idea bellissima e anche molto scenografica, se volevi potevi anche portare a casa le poesie che però erano orrende... 



mercoledì 6 giugno 2012

quasi una consolazione

Oggi ero tanto triste. Poi per strada improvvisamente c'erano loro.
Non è che dopo averli visti non ero più triste, ero triste lo stesso però avevo visto una cosa meravigliosa.