Questa mattina mi è venuta la matta e ho fatto uno dei temi che c'erano per le tracce della maturità, quello sul labirinto perché mi piaceva tantissimo.
Una delle cose che a mio padre è sempre piaciuto fare e che, anche oggi, gli porta via una gran quantità di tempo è “La settimana enigmistica”. Sinceramente non ho mai capito, né gli ho mai chiesto, che cosa lo appassioni tanto di quel giornaletto ma credo che il segreto stia nel senso di ordine e di compiutezza che porta con sé un quiz ben risolto.
Unisci i puntini, e verrà fuori un bel disegno, rispondi a tutte le domande e il cruciverba è completato e non c’è più nessuna casella bianca, guarda bene le figure, aggiungi le lettere, fai due ragionamenti eee oplà ecco che anche il rebus è risolto e diventa una frase semplice e chiara. Ciò che era indecifrabile improvvisamente acquista un suo significato e la cosa migliore è che, in un certo senso, se sei tu ad avere risolto il quiz, sei tu che sei stato capace di dargli il suo significato, il senso che aveva perduto.
Ogni tanto, tra le pagine un po’ ingiallite di quel settimanale c’è anche il quiz del labirinto, è uno di quelli facili: prendi la penna o la matita, se sei insicuro, e inizi a tracciare una linea e lentamente la tua linea arriva all’uscita. Il tratto di penna o la timida linea di grafite ricongiungono, non so, il cane alla sua ciotola, il bambino che si era perso alla sua casa. La strada che la tua mano percorre può avere un segno più o meno sicuro ma, non c’è dubbio, prima o poi arriverà a destinazione e potrai passare, volendo, al prossimo quiz.
Ecco, sulla carta è facile, perché il labirinto di solito è piccolo e poi se ne ha una visione d’insieme, devi trovare una strada, devi trovare una soluzione ed è una cosa semplice, è nella vita, quella vera, che la faccenda è complicata.
La vita che, a volte, assomiglia così tanto alla nitida città degli immortali descritta da Borges, qualcosa che sembra fatto apposta per perdercisi dentro, per non raccapezzarcisi. Qualcosa che sembra esplorabile solo in maniera imperfetta. Di tutte le cose che ci accadono, di tutti gli incontri che facciamo è così terribile non riuscire ad afferrare immediatamente il senso, che ci sembra come un’ “alta finestra irraggiungibile, la vistosa porta che s’apriva su una cella o su un pozzo, le incredibili scale rovesciate, coi gradini e la balaustra all’ingiù”.
Gli eventi che popolano la nostra esistenza assomigliano al quadro di Esher “relatività” dove, le strade, le scale, sembrano non portare da nessuna parte o le porte si aprono solo su stanze buie. Nessuno di quelli che, lì nel quadro, come noi, va su e giù sembra aver trovato la strada, forse quei due che se ne vanno nel giardino abbracciati ma non è sicuro.
Il problema è che così, non avendo un significato, non trovando una strada, nessuno ha un volto, una faccia, tutti si assomigliano e sono tragicamente da soli, occupati nei loro affari o piegati, come uno degli omini, sotto il peso di un sacco troppo pesante.
È la stessa cosa che accade al protagonista delle Città invisibili di Calvino quando vorrebbe andare nel centro di Pentesilea. Si chiede dove si trovi: “la città dove si vive”, non il luogo dove si lavora, il luogo dove si dorme ma il luogo dove si vive, dove uno, cioè, è veramente se stesso. Non il posto dove si va, spesso, quasi obbligati da un dovere o da una necessità e nemmeno il luogo dove si dorme, dove non si è che parte di una massa indistinta accumunata da un bisogno del tutto naturale. Il punto è se esiste un posto in cui io posso essere davvero io, se esiste una strada per andarci, se qualcuno conosce questa strada oppure se si è condannati a vagare di periferia in periferia, da indistinto a indistinto, vittime delle indicazioni di chi, con “un gesto intorno che non sai se voglia dire: “Qui”, oppure: “Più in là”, o: “Tutt’in giro”, o ancora: “Dalla parte opposta”, non sa nemmeno lui dove sta andando.
Sembra che il centro della città, il luogo in cui dire io, in cui sentirsi a casa, in cui sentire che il proprio bisogno è compiuto e ha una risposta esista, sì, ma in fondo sia irraggiungibile quindi, meglio arrendersi, meglio rinunciare a capire e abbandonarsi un limbo che appare ipotesi tanto probabile quanto angosciosa.
Anche i personaggi dell’Orlando Furioso di Ariosto vivono lo stesso dramma, per un intero poema vanno alla ricerca dell’oggetto del loro desiderio, di ciò che, una volta posseduto, li faccia sentire compiuti, risolti.
È impossibile non essere solidali e sentirsi vicini al povero Orlando che si affanna nel castello alla ricerca di Angelica o a tutti gli altri che come lui s’inquietano e si arrabbiano perché non riescono a possedere ciò che desiderano:
“Di su di giù va il conte Orlando e riede, / né per questo può far gli occhi mai lieti / che riveggiano Angelica, o quel ladro / che n’ha portato il bel viso leggiadro. // E mentre or quinci or quindi invano il passo / movea, pien di travaglio e di pensieri, / Ferraù, Brandimarte e il re Gradasso, / re Sacripante ed altri cavallieri / vi ritrovò ch’andavano alto e basso, / né men facean di lui vani sentieri; / e si ramaricavan del malvagio / invisibil signor di quel palagio. // Tutti cercando il van, tutti gli dànno / colpa di furto alcun che lor fatt’abbia: / del destrier che gli ha tolto, altri è in affanno; / ch’abbia perduta altri la donna, arrabbia; / altri d’altro l’accusa: e così stanno […]”.
In questo labirinto, in cui raggiungere ciò che fa gli occhi lieti sembra impossibile, l’affanno inquieto della ricerca, si accompagna sempre alla ricerca di un colpevole per il fatto che non si riesce ad afferrare ciò che si desidera.
Quante volte, ci si illude che trovando il colpevole il mistero di quello che accade sia risolto, l’inquietudine di fronte a qualcosa che non controlliamo possa essere ammansita. Così, se a causa di un terremoto, una casa cade e delle persone muoiono, ci sembra che sapere tutte le ragioni per cui avviene un terremoto, sapere com’era costruita la casa e quindi perché è crollata, trovare un amministratore negligente che non ha fatto il suo dovere, risponderà in maniera esaustiva all’unica domanda a cui realmente vogliamo rispondere: perché è successo?.
Perché ci capita di desiderare cose che la vita sembra rifiutarci, qual è la strada per noi? Si può essere compiuti, davvero felici in un marasma di cose.
Se la risposta non c’è, se non è afferrabile, se non è incontrabile, se non c’è la strada per uscire dal labirinto allora, purtroppo la vita è esattamente come il quadro il Pollok.
Non a caso, questo dipinto, prende il titolo da un mito in cui anche l’ordine naturale delle cose è stravolto e con un inganno una donna può orribilmente accoppiarsi con un toro. Uomini, animali, cose, persone, senza una strada tutto è uguale, tutto è indistinto, tutto è confuso e la riuscita sta solo nelle mani dei violenti o di chi ha il potere e la forza di sgomitare all’interno della confusione o di imporre con la forza un suo ordine temporaneo alle cose.
L’unica possibilità, è che qualcuno, come la bambina del quadro di Picasso ci illumini la strada, che qualcuno, per cui il significato delle cose non è un ignoto ci accompagni e ci sostenga nella nostra strada.
L’unica soluzione è che a dispetto dell’apparenza della nostra misura, che è deforme come il Minotauro che nel quadro vuole spegnere la candela della bambina, il significato delle cose esista e che possa essere incontrato e vissuto.