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"L’anno del
mio decimo compleanno si era ammalato papà, ed era stato allora che avevo
cominciato a smettere. Mi era sempre piaciuto il timbro del pianoforte, così mi
iscrissi a lezione per sei settimane alla fine delle quali ci fu un saggio. Mi
vestii elegante e suonai un minuetto, e le mie due mani facevano cose diverse
contemporaneamente e alla fine si bevve il succo di frutta e mi abbracciarono
mentre la melodia continuava a ronzarmi in testa. Accompagnai l’insegnante alla
macchina, lei mi sorrise orgogliosa. Il cielo le si strinse addosso. Abbassai
la voce: senta, le dissi concitata. Lei non deve più, mai più rimettere piede in questa casa. Interdetta aggrottò le
sopracciglia. Mona?, chiese. Che diamine…
Grazie,
risposi. Ma siamo al capolinea.
Dissi a
mamma che era un gran peccato, accidenti, che l’unica insegnante di pianoforte
se ne andasse dalla nostra cittadina povera di opportunità per diventare una
rock star nella metropoli. Lei spalancò gli occhi e prese il telefono. Il cuore
cominciò a battermi forte, ma con enorme sollievo a casa dell’insegnante scattò
la segreteria telefonica e il messaggio di mamma fu vago, qualcosa tipo: Buona
fortuna, le facciamo tanti auguri. Tre settimane dopo si incontrarono per caso
al mercato. Non ho idea di che cosa si siano dette.
Ho preso
dieci lezioni di danza, e il pomeriggio del mio primo saltello ho donato le
scarpe in beneficienza. Ho avuto un solo ragazzo: in meno di due mesi, a letto
si era trasformato in una statua. Sulla pista d’atletica correvo come una meteora,
e mi sono spedita fuori dall’orbita.
Ho smesso
con i dolci per il gusto di vedere se ci riuscivo – naturalmente sì; una sera
ho smesso di respirare finché i polmoni non hanno preso il sopravvento; ho
smesso di toccarmi la pelle, dormendo con le mani sotto il cuscino. Quando non
c’era nessuno a casa, legavo il pianoforte con delle corde, così che poi mi ci
voleva mezz’ora di lavoro con le forbici per rimettermi su quel minuetto. Dopo
un po’ ho nascosto tutte le forbici.
Non ho
smesso invece di tamburellare sul legno, cosa che facevo sempre. Era il mio
modo di sigillare nelle radici e nella corteccia ogni cosa interrotta; ascolta,
dico al legno… guarda bene cosa sto facendo. Prendi nota. Notalo.
Niente piano.
Niente dolci. Niente atletica. Niente. Sono innamorata dello smettere.
A suo modo è
un’arte, se ci pensate. Smettere bene richiede un innato senso della bellezza;
bisogna saper sentire il momento della svolta, proprio quando il desiderio fa
la sua comparsa, quello è il momento di darci un taglio, giù deciso, l’istante
in cui lo smettere è maturo come una pesca che si fa dolce sull’albero: crack,
si spacca il picciolo, la pesca cade per terra, nera e argento di mosche. Ho avuto
un solo ragazzo. Di solito era distratto ma una bella sera d’estate eravamo
seduti di fronte a casa sua e le sue labbra si mossero sulla mia pelle come un
quartetto d’archi e sentii che quella pesca era pronta a cadere dall’albero.
Ho smesso di
andare al cinema.
Ho smesso di
lavorare alla tavola calda visto che il cuoco non la smetteva più di dire che
ero stata un’atleta eccezionale.
Ho smesso di
mangiare uova sode in insalata.
Ho smesso di
consultare gli atlanti.
Avevo smesso
da un pezzo di pensare che me ne sarei andata di casa quando, il giorno del mio
diciannovesimo compleanno, mamma mi buttò fuori lei."
[Da A. Bender Un segno invisibile e mio]
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